10 Mag – Le posizione di Federvini, Uiv, Fivi, Federdoc, Cooperative e politica sulla proposta Ue che guarda più ai mercati che alla tradizione
Il vino dealcolato tra bocciature ed aperture: ma c’è ancora bisogno di fare chiarezza
Il tema della dealcolazione del vino, deflagrato ieri forse persino oltre le attese, sulla scorta di quanto emerso dall’ultimo trilogo dell’Ocm Vino, offre spunti interessanti e punti di vista più o meno convergenti, all’interno della filiera del vino italiano.
Oggi sono arrivate le analisi di Federvini, Uiv, Fivi, Federdoc e Cooperative Alimentari, le principali associazioni del vino, ma anche della politica, con le bocciature tranchant e bipartisan del Sottosegretario alle Politiche Agricole Gian Marco Centinaio e del senatore Dario Stefàno, in un quadro che fa emergere distinguo importanti, utilissimi per capire di cosa si sta parlando, attraverso punti di vista e letture diverse. In sostanza nella complessità della questione il primo elemento di chiarezza riguarda la differenza tra abbassamento della gradazione e dealcolazione, parziale o totale. Da una parte c’è una pratica enologica che può risolvere i problemi di vini molto alcolici, specie a causa di estati sempre più calde, dall’altra l’esigenza, tutta commerciale, di proporre qualcosa di nuovo che, però, non ha molto a che fare con il vino. Ma che, per la Uiv, dovrebbe comunque rimanere, come categoria di prodotto, all’interno del vino, per aprire un mercato nuovo ed evitare che a sfruttarlo siano i big del beverage.
Le posizioni, anche molto diverse, convergono su un punto, che non è di poco conto: l’inadeguatezza della definizione “vino” rispetto ad un vino senza alcol, o a bassa gradazione alcolica. Un tema importantissimo, su cui la Fivi (Vignaioli Indipendenti) è decisamente contraria, ma che non chiude comunque la porta al tema vero, ossia quello della necessità, per il vino europeo, di competere con i produttori del Nuovo Mondo su mercati nuovi ed emergenti, puntando su un prodotto che sì con il vino ha poco a che fare, ma che dal vino, comunque sia, deriva.
Il segretario generale di Unione Italiana Vini (Uiv), Paolo Castelletti, offre così una lettura pragmatica e puntuale. “Siamo attenti ma non allarmati rispetto al tema dei vini dealcolati, la cui proposta della Dg Agri risale al 2018 e sulla quale Parlamento e Consiglio si sono già espressi da diversi mesi. Per Unione Italiana Vini è importante che queste nuove categorie rimangano all’interno della famiglia dei prodotti vitivinicoli, come tra l’altro riconosciuto dall’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (Oiv), per evitare che possano divenire business di altre industrie estranee al mondo vino e che dunque siano le imprese italiane a rispondere alle richieste di mercato (specialmente di alcuni Paesi asiatici). Le pratiche enologiche saranno stabilite con futuri atti della Commissione. Sui dettagli attendiamo il testo finale, ma è chiaro che l’aggiunta di acqua non è in alcun caso prevista per abbassare il grado alcolico. Il vino è già composto per l’85% da acqua di vegetazione, la stessa che, nel normale processo di dealcolazione, viene estratta nella fase di centrifugazione per poi essere reintegrata. Dal punto di vista politico – ha aggiunto Castelletti – l’Unione Italiana Vini (Uiv) sostiene la posizione del Parlamento Europeo che non ammette vini dealcolati tra le produzioni Dop e Igp, mentre ritiene fondamentale seguire attivamente il trilogo in corso nell’interesse dei produttori e delle loro imprese, perché è un mercato che sta crescendo sensibilmente e sarebbe miope precluderlo a priori al nostro prodotto. Il negoziato della riforma della Pac – ha concluso – è entrato nella fase più delicata, chiediamo la massima attenzione del Ministro Patuanelli ai dialoghi del trilogo, perché i dettagli sono fondamentali”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il settore Vino dell’Alleanza Cooperative Agroalimentari, che, però, mette in guardia su una definizione che, come emerge dalle bozze del testo in circolazione, rischia di rivelarsi un errore madornale: “non si può chiamare vino un prodotto assai lontano da quello originale in cui è prevista l’aggiunta di acqua. Si tratta di un errore che andrebbe a snaturare completamente le caratteristiche di un prodotto dalla tradizione millenaria, oltre a costituire anche una mancanza di trasparenza nei confronti del consumatore”, dice Luca Rigotti, Coordinatore del settore Vino di Alleanza Cooperative Agroalimentari. “Siamo molto preoccupati dal nuovo approccio che sembra emergere nei testi che stanno circolando, perché nella proposta iniziale della Commissione, vino dealcolizzato e parzialmente dealcolizzato dovevano andare a costituire due nuove categorie di vino. Nel nuovo testo, diventano invece il mero risultato di una pratica enologica che andrebbe ad applicarsi alle categorie di vino già esistenti (fermo, frizzante, spumante, eccetera)”, fa notare Rigotti.
Che, sulla possibilità di istituire una nuova categoria, dentro il settore enoico, non erige alcuna barricata. “Pur concordando sulla opportunità che tali regole trovino spazio in Regolamenti del settore vitivinicolo, e pur non essendo a priori contrari ai vini a bassa gradazione alcolica, considerando che essi rappresentino un’opportunità commerciale, specie in alcuni paesi – spiega ancora il coordinatore Vitivinicolo dell’Alleanza Cooperative Agroalimentari, Rigotti – la nostra posizione è che essi debbano essere chiamati diversamente, ad esempio bevande a base di vino”. Se la proposta di regolamento non verrà modificata, non ci sarà nemmeno bisogno di apportare alcuna modifica ai disciplinari per poter produrre un vino a denominazione parzialmente dealcolizzato. “E, cosa ancor più grave – continua Rigotti – i produttori di vino e i loro Consorzi non avranno più la possibilità di decidere autonomamente se accettare o meno tale pratica”.
Tanto per fare un esempio, potremmo un domani trovare sul mercato (senza che la filiera produttiva abbia effettuato alcuna scelta in tal senso) un prodotto denominato “vino”, ad esempio un Montepulciano d’Abruzzo Doc, con una gradazione alcolica di 2% vol. È vero che per le Dop e le Igp nella bozza di testo si parla solo di dealcolizzazione parziale, ma secondo Rigotti, “ciò non è in alcun modo sufficiente per tutelare i vini di qualità”. Ancora più grave, sempre secondo Rigotti, l’inserimento nel nuovo testo della possibilità di “consentire l’aggiunta di acqua dopo la dealcolizzazione ai prodotti vitivinicoli, pratica che è attualmente vietata in tutta l’UE. In Italia il Testo unico del vino ha introdotto il divieto anche solo di detenere acqua in cantina, compresa quella ottenuta dai processi di concentrazione dei mosti e dei vini, riconosciuta a tutti gli effetti come sostanza idonea alla sofisticazione.
“Di dealcolazione, in Federvini, abbiamo parlato spesso. È un discorso che va affrontato, per una questione di competitività, a livello europeo, per trovare un accordo tra tutti i Paesi produttori di vino”,commenta Sandro Boscaini, presidente Federvini e tra i produttori più importanti dell’Amarone e della Valpolicella. “Bisogna distinguere tra vino senza alcol e vino dealcolato, e ovviamente è un discorso che non dovrebbe riguardare i prodotti Dop e Igp, che hanno una loro naturalità, di cui fa parte anche l’alcol. Che si possa ottenere dal vino una bibita più appetibile, con minor alcol, e quindi più competitiva con altri prodotti, e mettere tutti i Paesi produttori nelle stesse condizioni, mi sembra corretto. Invece, credo che il vino senza alcol non debba essere chiamato vino. È un tema diverso, è nella sua natura avere alcol, anche se a livelli più bassi, il vino deve avere alcol. Il prodotto senza alcol è un’altra bevanda, che proviene dall’uva ma non è il vino”, sottolinea Sandro Boscaini.
Ma quali sono i limiti, almeno andando per ipotesi, accettabili affinché il vino venga ancora considerato tale? “Possiamo pensare a più fasi, a patto che siano ben distinte, come tutto ciò che regolamenta il vino. Secondo me, come c’è la possibilità di aumentare il grado alcolico di alcun prodotti, ci dovrebbe essere la possibilità anche di diminuirlo, anche in considerazione di ciò che ci dà la natura, perché il global warming tende a dare effettivamente prodotti piuttosto pesanti da un punto di vista alcolico. Credo che il grado e mezzo o due in più o in meno siano tollerabili in un ambito della considerazione del vino come abbiamo sempre avuta, ma quando si va oltre si va a produrre effettivamente un altro prodotto, che può anche essere vino, o meglio vino dealcolizzato, ma obiettivamente si va ad incidere sui caratteri organolettici del vino. Quando poi non c’è alcol siamo proprio al di fuori della sfera del vino”, continua il presidente Federvini. Questo, però, non vuol dire che si tratti di un prodotto privo di interesse, “perché l’uva è un frutto di particolare pregio, e il vino è un prodotto che ha tante altre caratteristiche interessanti, però sono tutte coordinate dal grado alcolico, senza, pure con tannini ed antociani, non è più vino. Secondo me è molto importante che almeno l’Oiv, o la Ue, non creino posizioni di competizione tra Paesi su questo tema, tra liberali e tradizionalisti. Credo che valga la pena di prendere una posizione comune, a salvaguardia sia del prodotto ma anche di una sana competizione, sui valori del prodotto, e non sulla furbizia di essere i primi a fare cose che altri non possono fare”, conclude Sandro Boscaini.
Ben diversa, invece, la posizione della Fivi – Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, guidata da Matilde Poggi, che ricorda come “la Fivi – Vignaioli Indipendenti è sempre stata abbastanza contraria a questa pratica, che riteniamo molto invasiva, e riteniamo che sia oltremodo pericoloso parlare di dealcolazione di vini a denominazione di origine: far rientrare questi prodotti all’interno del vino è pericoloso, perché vuol dire che ci rientrerebbero anche con gli Ocm e nel Piano Nazionale del settore. Non lo vediamo con favore, anche se sappiamo che c’è una domanda di questi prodotti, che riteniamo possano interessare più il mondo dell’industria, non il mondo del vino artigianale che rappresentiamo”, spiega Matilde Poggi.
“È una accelerazione a cui non eravamo preparati, dovremo approfondire per trovare una quadra, ma il rischio che questi prodotti entrino nei piani di promozione esiste, e noi non abbiamo mai capito come mai ci fosse questa pressione, a chi possa interessare, a parte all’industria. La parte industriale della filiera ha voluto spingere per evitare che questi prodotti arrivassero sui mercati da altri Paesi, perché la domanda c’è, ma la Fivi non ha alcun interesse ad entrare in questo settore”, continua la presidente della Fivi. Che poi distingue, giustamente, tra “prodotti dealcolizzati in maniera pesante, come i wine pop ed i prodotti a base di vino e l’abbassamento, limitato, della gradazione alcolica come risposta al cambiamento climatico. In questo senso, però, credo che si debba intervenire con un cambio in agricoltura. Ci sono pratiche viticole che possono portarci alla vendemmia con gradazioni alcoliche un pochino più basse. In questo marasma, però, c’è una gran confusione tra chi è interessato a fare prodotti da 4-5 gradi partendo dal vino, e chi invece vuole la possibilità di abbassare il grado alcolico di due o tre gradi, passando magari da 15 a 12 gradi, per seguire il trend di consumo”, continua Matilde Poggi.
Che ribadisce, come molti suoi colleghi, il senso di una pratica enologica utile a rispondere ad un mercato del vino e dei consumi diverso, “in cui le abitudini sono cambiate, come la dieta, si prediligono vini più leggeri, per questo ci sono territori, oggi, vincenti in virtù di vitigni e clima che portano ad avere naturalmente vini da 12-13 gradi, mentre in altre non si sta mai sotto i 14 gradi, e quei vini lì in questo momento fanno fatica”, conclude la presidente Fivi – Vignaioli Indipendenti.
La Federdoc, nelle parole del presidente Riccardo Ricci Curbastro, “si prende ancora un po’ di tempo per capire meglio, documentarsi e confrontarsi, prima di dire la sua. Anche perché, l’argomento è importante e delicato, l’iter è appena all’inizio e ci sarà tempo e modo, dopo averne discusso con tutti i soci di Federdoc, di condividere una posizione comune. Di certo, è un tema che andrà affrontato, e di cui si dibatterà a lungo”.
Chi non ha troppi dubbi, nel bocciare tout court la decisione della Ue, è il Sottosegretario alle Politiche Agricole, Gian Marco Centinaio: “l’Europa non smette mai di sorprenderci. In negativo. Pochi giorni fa il via libera al commercio di larve delle tarme della farina. Adesso la proposta di aggiungere acqua al vino togliendo l’alcol. Stiamo assistendo a una pericolosa deriva. In tutte le sedi, e con tutti gli strumenti, diremo no a politiche quantomeno inopportune che sembrano orientate a penalizzare le nostre eccellenze”, commenta Centinaio. “Prima il tentativo di inserire nelle etichette di bevande alcoliche un messaggio di allarme per la salute, al pari delle sigarette. Ora l’ipotesi di dealcolazione parziale e totale come nuova pratica enologica. C’è da chiedersi con quale obiettivo. Quello di favorire le bevande annacquate o il vino in bustina dei wine kit con cui i Paesi del Nord Europa imitavano il made in Italy? L’Ue non dia il semaforo verde a una pratica finora considerata sleale, una frode a danno del consumatore e della nostra economia. Che fine farebbe il nostro patrimonio di Docg, Doc, Igt? Difendiamo tutte le denominazioni che fanno grande il Made in Italy e che tutto il mondo ci invidia. Ci batteremo con ogni mezzo per difendere quello che è il nostro ambasciatore d’eccellenza e parte integrante della Dieta Mediterranea. Nonché – conclude Centinaio – un tassello fondamentale per l’economia reale del paese”.
Altra voce, dal mondo della politica, decisamente critica, è quella del senatore Dario Stefàno, presidente della Commissione Politiche dell’Unione Europea, che sulla proposta, sostenuta da una larga maggioranza a Bruxelles, di autorizzare nelle pratiche enologiche l’eliminazione totale o parziale dell’alcol con la possibilità di aggiungere acqua nei vini, anche quelli a denominazione di origine, è piuttosto tranchant. “L’Europa intende legalizzare una pratica che oggi costituisce il reato di “frode in commercio” producendo un danno alla principale voce dell’agroalimentare italiano. Quantomeno non si riporti in etichetta il termine vino, poiché vino non sarebbe. Si tratta – spiega Stefàno – di una decisione che, qualora dovesse passare, creerà confusione sul mercato, col rischio di alimentare fenomeni di frodi e di contraffazioni a tutto danno dei consumatori che si troveranno a pagare qualcosa che vino non è”, dice il senatore del Partito Democratico (Pd).
“L’utilizzo del termine vino in etichetta – prosegue Stefàno – è associato a un secolare processo di trasformazione dell’uva in mosto e quindi in vino. Ci sono disciplinari di produzione delle Dop e delle Igp che sono molto rigidi e che assicurano la qualità del prodotto e garantiscono i consumatori. Pur ammettendo – sottolinea Stefàno – la richiesta di prodotti con minore tasso alcolico per alcuni prodotti – ma questo vale semmai per i superalcolici, non certo per i vini – non è accettabile che si chiami vino un prodotto per la vendita in cui viene “legalizzata” una pratica che oggi costituisce il reato di “frode in commercio”. Tali prodotti non avrebbero nulla a che vedere con i vini della nostra tradizione e della tradizione europea più in generale, e non dovranno in alcun modo riportare nella loro etichetta la parola vino. Sarebbe uno schiaffo per i tanti lavoratori del settore con un danno diretto, come bene ha detto Ettore Prandini, presidente Coldiretti, ad un settore che rappresenta la principale voce dell’export agroalimentare nazionale, che sviluppa un fatturato di 11 miliardi di euro. Assumerò immediate iniziative, anche in Commissione – conclude il senatore Stefàno – per allertare il nostro Governo a presidiare una discussione sbagliata e dannosa”.
Fonte: Winenews.it
10/05/2021